Card. Tomáš Špidlík
Storia e Teologia
Cardinale Tomáš Špidlík (1919 – 2010)
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"La bellezza salverà il mondo". Questo fu il tema di una riunione organizzata nel novembre del 2004 dal Pontificio Consiglio per l’arte. Come mai questa frase, presa da Dostoevskij, è divenuta così popolare e anche attuale? Paragonando la nostra situazione al passato, si nota una certa contraddizione. Da una parte viviamo in una società che si potrebbe chiamare "visiva", piena di immagini. Dall’altra, però, la gente non è educata a "leggere" il loro significato e neanche gli artisti si sforzano di dare alle pitture un profondo significato spirituale. È utile ricordarsi come già più di cento anni fa sia stata sollevata la questione da V. Solov’ëv. Egli notò che i luoghi, considerati sacrosanti, della scienza europea avevano ricevut il nome di università, termine che promette di offrire ai suoi membri una scienza universale, integrale, tutto il sapere raggiungibile dall’uomo intelligente in maniera che si veda in unità. Ma ben presto nacquero al suo interno delle divisioni nella forma delle "facoltà". E ben presto delle ulteriori divisioni apparvero anche dentro le stesse facoltà sotto forma di molteplici specializzazioni. L’uomo di oggi si è conciliato con questa evoluzione e stima tutti coloro che si sono "specializzati" in qualche materia, anche a costo di un’ignoranza penosa riguardo ai problemi essenziali della vita. Al contrario, il grande pensatore russo ne era urtato dolorosamente. Da giovane fu incantato dalla visione della Sofia, nella quale "tutto ciò che fu, ciò che è e tutto ciò che sarà lo abbraccia un unico sguardo immobile". Al contrario, lo studio della cultura europea lo convinse che vi dominano tre tipi di conoscenza: 1) quella sensibile, empirica; 2) quella razionale ("aristotelica" per i Padri, "kantiana" per Solov’ëv); 3) quella spirituale, intuitiva, mistica. Purtroppo, fra queste tre categorie della nostra cultura, non esiste nessun tipo di comunicazione. Solov’ëv considerava quindi la sua vocazione di pensatore e di scrittore in questa prospettiva: ritrovare l’unità della nostra cultura e della conoscenza umana in genere. Questa unità non potrà essere una nuova scolastica, nel senso di una sintesi dentro ad una cornice razionale. Allora bisogna cercare l’unità scegliendo un’altra via. Questa via il pensatore la scoprì verso la fine della sua vita al crocevia fra le scienze e le arti.
Le scienze studiano il mondo, ma nello stesso tempo il mondo esercita un’attrattiva su di noi, perché amiamo la sua bellezza. Ma non sempre. Perché tutto non ci sembra bello? Per porre il problema in modo concreto, Solov’ëv ricorre all’esempio del diamante. Tutti sono d’accordo che il diamante è bello. Ci rendiamo conto anche di quale sia la causa della sua bellezza. Chimicamente, il diamante è la stessa cosa del carbone. Ma la grande differenza tra di loro sta nel fatto che il carbone soffoca la luce, invece il diamante la fa risplendere. Riflettendo su questo principio, la bellezza può essere definita come "la trasformazione della materia per mezzo dell’incarnazione, in essa, di un altro principio, sovramateriale".
Lo stesso principio si può esprimere anche con altre parole: le scienze analitiche vedono una cosa accanto all’altra (cfr. l’idea clara et distincta a quavis alia di Cartesio), la visione estetica vede una cosa nell’altra; uno non è distinto dall’altro, ma diviene simbolo dell’altro, le cose materiali rivelano le idee che vi si incarnano. Procedendo su questa via, si può alla fine vedere l’uno nel tutto e tutto in uno, e il mondo diviene capace di rivelare la pienezza della sapienza divina.
Il rapporto tra l’immagine e il modello originario ha un ruolo importante nel pensiero dei Padri. È, anzitutto, alla base dell’esegesi allegorica, secondo cui l’Antico Testamento contiene l’ombra dei veri beni, il Nuovo Testamento ne possiede l’immagine, ma la realtà di questi beni appartiene solo al mondo futuro. Lo stesso rapporto vale anche per il mondo sensibile: le cose terrene sono copie di modelli eterni. È stato osservato che gli occidentali cercano la causa efficiens, mentre gli orientali concentrano la loro attenzione sulla causa exemplaris, meditano cioè sul significato dei fatti che avvengono.
Le considerazioni sulla bellezza sembrano essere riservate a coloro che si occupano di estetica. La teologia aspira ad essere una vera scienza accanto alle altre scienze umane, la "scienza su Dio". Fu sempre così? Sembra che sia stato Platone ad usare per la prima volta il termine di "teologia". Ma non crede che essa si possa paragonare facilmente alle altre conoscenze. Allora egli fece una distinzione che non è solo verbale. Gli uomini dediti alla scienza intellettuale coltivano la meteorologia, insegnamento sulle cose superiori del cosmo visibile (ta meteora), ma non direttamente su Dio. La teologia, la scienza su Dio, è riservata ai poeti, che sono come dei sacerdoti che ci introducono nel mistero, lo svelano per mezzo dei simboli.
Indicando i teologi, abbiamo in mente prevalentemente quelli che scrivono o parlano. Notiamo però che nella tradizione orientale la predicazione della fede per mezzo delle immagini è dichiarata uguale a quella per mezzo delle parole. Scrive Simeone di Tessalonica: "Insegna con le parole, scrivi le lettere, dipingi coi colori, in conformità con la Tradizione; la pittura è vera come la scrittura nei libri". L’arte iconografica corrisponde alla vocazione cosmica del cristiano. Egli è chiamato a condurre il mondo alla sua perfezione. Creato dalla parola creatrice del Verbo, le forme visibili del cosmo devono "parlare", rivelare Dio. A causa del peccato, gli uomini non capiscono la loro loquela. Gli iconografi, che sono ispirati, si propongono come scopo della loro arte sacra quello di afferrare le luci divine nel creato usando un simbolismo molto sviluppato. Contro gli iconoclasti, insistevano che il valore delle icone è e deve restare "simbolico", condurre la mente al contatto con il mistero, con le persone rappresentate, altrimenti c’è pericolo che le immagini diventino idoli.
Pavel Florenskij descrive magistralmente il processo della genesi di una icona. All’inizio è una visione spirituale interna, nella mente. Come esprimerla? L’iconografo passa la "fase tenebrosa". Sente vivamente che la visione spirituale vissuta non è di questo mondo e che niente di ciò che cade sotto lo sguardo le corrisponde. Gli artisti impazienti cominciano di creare forme irreali, fantastiche, ad esempio fiori inesistenti e uccelli variopinti per presentare il Paradiso. I veri artisti aspettano. Dopo la sofferenza purificante viene il periodo della "discesa": un momento felice, pieno di significato. L’artista vede le forme reali, appartenenti al mondo concreto, le quali diventano capaci di essere simbolo, parola, espressione della visione spirituale vissuta precedentemente. Ora può dipingerle, perché il loro significato è trascendente, trasparenza. Florenskij dà proprio l’esempio di Raffaello, il quale da giovane portava nel suo intimo un’immagine interiore della bellezza della Madonna, ma i suoi occhi corporali non vedevano nessuna donna che corrispondesse a questa visione. Ma in un bel felice incontrò, probabilmente a Firenze, una ragazza che lo impressionò profondamente. In che senso? Non che sarebbe stata identica alla Madonna, ma guardandola gli ricordava spontaneamente nella mente la visione spirituale che aveva sperimentato precedentemente; la sua forma esterna divenne un simbolo, una parola dell’esperienza vissuta nello spirito.
Se questa rivista vuole educare i suoi lettori ad una tale visione del mondo, la sua esistenza e la sua attualità sono sufficientemente giustificate da queste considerazioni.
Le scienze studiano il mondo, ma nello stesso tempo il mondo esercita un’attrattiva su di noi, perché amiamo la sua bellezza. Ma non sempre. Perché tutto non ci sembra bello? Per porre il problema in modo concreto, Solov’ëv ricorre all’esempio del diamante. Tutti sono d’accordo che il diamante è bello. Ci rendiamo conto anche di quale sia la causa della sua bellezza. Chimicamente, il diamante è la stessa cosa del carbone. Ma la grande differenza tra di loro sta nel fatto che il carbone soffoca la luce, invece il diamante la fa risplendere. Riflettendo su questo principio, la bellezza può essere definita come "la trasformazione della materia per mezzo dell’incarnazione, in essa, di un altro principio, sovramateriale".
Lo stesso principio si può esprimere anche con altre parole: le scienze analitiche vedono una cosa accanto all’altra (cfr. l’idea clara et distincta a quavis alia di Cartesio), la visione estetica vede una cosa nell’altra; uno non è distinto dall’altro, ma diviene simbolo dell’altro, le cose materiali rivelano le idee che vi si incarnano. Procedendo su questa via, si può alla fine vedere l’uno nel tutto e tutto in uno, e il mondo diviene capace di rivelare la pienezza della sapienza divina.
Il rapporto tra l’immagine e il modello originario ha un ruolo importante nel pensiero dei Padri. È, anzitutto, alla base dell’esegesi allegorica, secondo cui l’Antico Testamento contiene l’ombra dei veri beni, il Nuovo Testamento ne possiede l’immagine, ma la realtà di questi beni appartiene solo al mondo futuro. Lo stesso rapporto vale anche per il mondo sensibile: le cose terrene sono copie di modelli eterni. È stato osservato che gli occidentali cercano la causa efficiens, mentre gli orientali concentrano la loro attenzione sulla causa exemplaris, meditano cioè sul significato dei fatti che avvengono.
Le considerazioni sulla bellezza sembrano essere riservate a coloro che si occupano di estetica. La teologia aspira ad essere una vera scienza accanto alle altre scienze umane, la "scienza su Dio". Fu sempre così? Sembra che sia stato Platone ad usare per la prima volta il termine di "teologia". Ma non crede che essa si possa paragonare facilmente alle altre conoscenze. Allora egli fece una distinzione che non è solo verbale. Gli uomini dediti alla scienza intellettuale coltivano la meteorologia, insegnamento sulle cose superiori del cosmo visibile (ta meteora), ma non direttamente su Dio. La teologia, la scienza su Dio, è riservata ai poeti, che sono come dei sacerdoti che ci introducono nel mistero, lo svelano per mezzo dei simboli.
Indicando i teologi, abbiamo in mente prevalentemente quelli che scrivono o parlano. Notiamo però che nella tradizione orientale la predicazione della fede per mezzo delle immagini è dichiarata uguale a quella per mezzo delle parole. Scrive Simeone di Tessalonica: "Insegna con le parole, scrivi le lettere, dipingi coi colori, in conformità con la Tradizione; la pittura è vera come la scrittura nei libri". L’arte iconografica corrisponde alla vocazione cosmica del cristiano. Egli è chiamato a condurre il mondo alla sua perfezione. Creato dalla parola creatrice del Verbo, le forme visibili del cosmo devono "parlare", rivelare Dio. A causa del peccato, gli uomini non capiscono la loro loquela. Gli iconografi, che sono ispirati, si propongono come scopo della loro arte sacra quello di afferrare le luci divine nel creato usando un simbolismo molto sviluppato. Contro gli iconoclasti, insistevano che il valore delle icone è e deve restare "simbolico", condurre la mente al contatto con il mistero, con le persone rappresentate, altrimenti c’è pericolo che le immagini diventino idoli.
Pavel Florenskij descrive magistralmente il processo della genesi di una icona. All’inizio è una visione spirituale interna, nella mente. Come esprimerla? L’iconografo passa la "fase tenebrosa". Sente vivamente che la visione spirituale vissuta non è di questo mondo e che niente di ciò che cade sotto lo sguardo le corrisponde. Gli artisti impazienti cominciano di creare forme irreali, fantastiche, ad esempio fiori inesistenti e uccelli variopinti per presentare il Paradiso. I veri artisti aspettano. Dopo la sofferenza purificante viene il periodo della "discesa": un momento felice, pieno di significato. L’artista vede le forme reali, appartenenti al mondo concreto, le quali diventano capaci di essere simbolo, parola, espressione della visione spirituale vissuta precedentemente. Ora può dipingerle, perché il loro significato è trascendente, trasparenza. Florenskij dà proprio l’esempio di Raffaello, il quale da giovane portava nel suo intimo un’immagine interiore della bellezza della Madonna, ma i suoi occhi corporali non vedevano nessuna donna che corrispondesse a questa visione. Ma in un bel felice incontrò, probabilmente a Firenze, una ragazza che lo impressionò profondamente. In che senso? Non che sarebbe stata identica alla Madonna, ma guardandola gli ricordava spontaneamente nella mente la visione spirituale che aveva sperimentato precedentemente; la sua forma esterna divenne un simbolo, una parola dell’esperienza vissuta nello spirito.
Se questa rivista vuole educare i suoi lettori ad una tale visione del mondo, la sua esistenza e la sua attualità sono sufficientemente giustificate da queste considerazioni.
Tomáš card. Špidlík